Pianura invivibile, si salvi chi può. L’ambiente non può cedere il passo a questo tipo di sviluppo

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Le contraddizioni esplose ora con la crisi energetica. Sull’energia pulita le scelte concrete da 30 anni rimaste nelle intenzioni

Tutto concorre a rendere la Pianura padana, per il futuro prossimo, un luogo inadatto alla vita in cui il benessere naturale rischia di essere sempre più irraggiungibile. Piacenza in questo quadro – insieme a tante città consorelle nella stessa situazione come ad esempio Cremona, ma anche Pavia – brilla per condizioni pessime e non solo dell’aria che respiriamo, ma anche delle condizioni climatiche di questi ultimi anni.

In natura tutto si tiene e anche questo ulteriore elemento, il clima (messo in evidenza da un report realizzato da Meteo.it insieme al Corriere della Sera) ci riporta al tema dei temi: la questione ambientale che si vive in questi territori ignorata nelle scelte. In realtà non è del tutto corretto perché le intenzioni forse ci sono state, contenuti legislativi anche – seppur parziali – è mancata e manca la determinazione finale che li porti a termine e li concretizzi.

Puntualmente le intenzioni restano tali nel momento in cui si alza la protesta di alcune categorie economiche e produttive. Indicazione che è intenzione: indisponibilità a cambiare il sistema dello sviluppo. Basta lanciare uno sguardo alle condizioni della viabilità interna alla città, alla quantità di auto, di mezzi di trasporto pesanti, all’inadeguatezza del sistema di trasporto pubblico per rendersi conto che per Piacenza il miglioramento dell’ambiente e quindi della vivibilità non ha storia.

Una critica forte che si rende attuale di fronte alla crisi energetica che stiamo vivendo. Piacenza, con la sua provincia, è forse la zona più cementificata a logistica della Pianura padana. A fronte degli abitanti presenti sarebbe interessante conoscere quanti metri quadrati edificati pesano sul capo di ciascun abitante della pianura considerato che 2/3 del territorio piacentino è montuoso e pochissimo popolato.

Quanto allo sviluppo logistico le ragioni le conosciamo. In primis la geografia, favorevole agli scambi commerciali, il che comporta però un parallela condizione sfavorevole per la vivibilità e la salubrità dell’ambiente. L’estensione delle aree logistiche copre milioni e milioni di terreno. Per compensare il consumo di suolo, avrebbero potuto diventare almeno punti di produzione di energia solare. Superfici autosufficienti senza gravare sul fabbisogno energetico. Non si conoscono le ragioni per cui in questi anni (è dal 2000 che i poli logistici stanno crescendo) non si è fatto. Sarebbe bastata la scelta di rendere obbligatorio – esattamente come a ogni costruzione s’impone l’allacciamento alla fognatura – l’autonomia energetica dei capannoni logistici o di altra natura per alleggerirne l’impatto ambientale. In gioco infatti, non ci si dimentichi, non c’è solo la bolletta energetica che oggi esplode, ma le condizioni ambientali derivanti dagli stessi insediamenti. Chi si sentirebbe oggi di realizzare una costruzione senza essere servita dalle fognature? Se questo passaggio culturale è stato assimilato e si è diffuso quasi fosse un’ovvietà (salvo casi che diventano subito cronaca) perché non costruire lentamente, con i fatti, un’analoga cultura su una produzione energetica puntiforme? L’indolenza con cui si è discusso in questi anni del problema dà l’idea che la questione ambientale sia stata relegata ad argomento caro ad ecologisti arretrati rispetto alle esigenze di una modernità che scalpitava e aveva esigenze non negoziabili ben precise.

E’ vero l’esatto contrario. Non solo alla luce delle avversità e delle emergenze odierne sarebbe stato un vantaggio (economico e ambientale) farsi trovare preparati. Ma così non è.

Non s’è fatto, non era possibile? Un passo avanti è stato compiuto con le comunità energetiche che però rischiano di restare ancora una volta un libro dei sogni poiché mancano i decreti attuativi per renderle concrete.

Tutto questo – e sono ormai 30 anni che se ne parla – resta lettera morta. Molto convinti tutti, ma a parole, che la strada da imboccare sia questa, altrettanto convinti che questa strada sarà imboccata sì, ma in un futuro imprecisato e da altri, non qui ed ora. Di recente poi con gli stanziamenti del PNRR tutti sembrano diventati ambientalisti. Ci sono scelte che indipendentemente dal denaro a disposizione avrebbero potuto essere decise ben tanto tempo prima e sono state ignorate. In parallelo, accanto al piano delle intenzioni astratte proseguiva, si sedimentava il modello di sviluppo di sempre: quello che ha garantito fino a qui la ricchezza a discapito del mondo in cui viviamo. Di questi argomenti – proprio in relazione alla qualità ambientale della zona padana – di recente si è parlato a Cremona. Al tavolo Legambiente, assessori, sindaci lombardi e anche l’assessore Irene Priolo della regione Emilia Romagna che, con il suo territorio che corre da Ovest a Est copre la maggior parte di territorio affetto da inquinamento. Da lei una considerazione che preoccupa. La politica spesso si trova costretta ad adottare scelte dettate dall’urgenza. Come il caso del gassificatore a Ravenna oppure la decisione di occupare suolo (25 mila ettari) per realizzare parchi fotovoltaici. Tutto per prendere di petto la crisi energetica. Da tenere conto che l’Emilia Romagna ha di recente approvato una legge che punta al consumo di suolo zero entrata in vigore proprio alla fine dello scorso anno.

Forse se la politica avesse deciso per tempo tutto questo potrebbe essere molto più sfumato e il fotovoltaico a quest’ora potrebbe già brillare sui tetti di tanti capannoni. Ma tant’è.

Antonella Lenti

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