Quartiere Roma: dati alla mano,
l’insicurezza percepita non corrisponde alla realtà

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Potremmo definire “di interesse locale” quello che accade da anni nel quartiere Roma di Piacenza, se non fosse che lo stesso quartiere, come sosteniamo da anni, è la fotocopia di ciò che è accaduto e accade in tutte le città relativamente alla sicurezza e all’immigrazione. Tanto “forti” sono tali elementi, che la recente campagna elettorale, con gli esiti che ne sono seguiti, proprio su essi si è giocata.
Ho scelto di risiedere nel Quartiere di Porta Galera dopo averlo vissuto come luogo di lavoro fin dal 1991. Da residente e in tempi più recenti come “operatore”, ho scelto di fare del quartiere l’osservatorio per il mio impegno sociale, tanto da aver animato un mensile che recita nel sottotitolo di testata: “dal quartiere Roma uno sguardo sulla città”; Questo a sottintendere quanto il quartiere sia il laboratorio culturale più interessante nel quale, forti della presenza di un’Università, di Scuole e di molte associazioni, si possano sperimentare le soluzioni per una nuova cultura legata alla globalizzazione.
Dati alla mano, occorre precisare che l’insicurezza percepita dalla generalità dei cittadini ha poco a che fare con la realtà; come testimoniato dai dati della Polizia di Stato, gli episodi di vera delinquenza sono pochi e circoscritti alla zona prossima alla stazione ferroviaria, circostanza caratteristica di ogni città. In realtà rari se non del tutto assenti sono i furti nelle abitazioni, quelli di auto, gli scippi e i delitti contro il patrimonio. A sera, dopo le 21 le persone che sostano in strada sono poche; il tempo delle risse dei sudamericani è finito da tempo, quindi un provvedimento che imponga la chiusura di tutti gli esercizi commerciali alle 21 coglie in minima parte i problemi derivanti dal consumo di alcolici che avviene perlopiù nel pomeriggio. Come si diceva della stazione, lo spaccio di stupefacenti non manca; questo però c’era già nel 1991 quando iniziai a dirigere il Liceo Artistico nella sua prima sede nel plesso Alberoni, con vista sui giardini. Evidente è pure il fatto che i pusher siano oggi perlopiù stranieri ma, mi si creda per conoscenza diretta, chi viene da paesi lontani ed ha affrontato un viaggio con pericoli indicibili l’ha fatto per trovare un lavoro diverso, ma questo è un ragionamento che avremo modo di fare un’altra volta.
Sta di fatto che ogni episodio di infrazione al vivere comune, anche se non classificabile come reato, si carica di un significato spropositato: il luogo assume il carattere di un archetipo contenuto nell’inconscio collettivo. L’impressione cresce, alimentandosi della paura atavica per il “diverso”. A fronte di residenti storici che autenticamente soffrono vedendo violato il luogo del proprio passato, molti altri cittadini che vivono altrove, ignari delle dinamiche sociali di Porta Galera dove non si sognerebbero mai di abitare, esprimono giudizi allarmistici avventati quanto definitivi. So di dire una cosa forte, ma si ha la sensazione che questi credano nel principio che, se il numero dei delinquenti non è infinito, saperli concentrati in un solo luogo, rende più sicuri tutti gli altri. Quanto affermato non è farina del nostro sacco, ma ci viene suggerito da autorevoli studi sui comportamenti umani. Ci dispiace doverlo dire: in questo gioco perverso nel quale l’insicurezza percepita è spropositata rispetto a quella reale, un ruolo determinante viene svolto dalla stampa che, pur svolgendo il doveroso compito di dar notizie, tende ad enfatizzare tutto ciò che accade nel quartiere Roma secondo il triste principio che è maggiormente appetibile al lettore ciò che colpisce la pancia piuttosto che l’intelletto.
La situazione tuttavia sta migliorando e grazie ad un progetto condiviso, da qualche anno le cose stanno cambiando, anche se il disegno di rinascita del quartiere sembra trovare perplessità nella nuova Amministrazione. La modalità con la quale si è affrontato il problema è quella adottata in altre città: rendere attori di ogni azione tutti i soggetti che in misura diversa operano nel territorio: mi riferisco al volontariato e alle istituzioni ed al tempo stesso dare servizi per le famiglie e i giovani. Non temiamo d’essere tacciati da “buonisti”, ma, mi si creda, le sole misure repressive non hanno risolto in alcun luogo i problemi di pochi episodi di microcriminalità rispetto ai tanti di diseducazione. C’è da dire che i processi di educazione alla legalità, che sono la via più efficace, sono lunghi e richiedono convinzione e risorse. Se si vuole ristabilire uno stato di salute ci si deve applicare ad una cura lunga e impegnativa: l’aspirina cura i sintomi della malattia, è facile da assumere e costa poco, ma se si vuol guarire davvero dobbiamo affidarci ad un medico che prescriverà una cura appropriata, impegnativa e costosa. La presenza di tre scuole e due Facoltà Universitarie, di un museo, di una popolazione variegata per età e cultura rende il quartiere il più adatto per l’insediamento di nuove piccole imprese artigianali e commerciali. Noi “buonisti” non neghiamo che il fenomeno migratorio, così come sta ancora avvenendo, crei problemi e destabilizzazione ovunque, ma il governo del fenomeno esula dalle nostre competenze e possibilità: noi possiamo solo rimboccarci le maniche promuovendo e educando alla legalità. Infine è provato che dove si insediano famiglie, con donne e bambini , diminuisce il tasso di “devianza”e si manifesta una richiesta di sicurezza anche da parte delle stesse. I reati quasi sempre sono commessi da uomini che vivono da soli.
Ci auguriamo che l’Amministrazione Comunale di Piacenza lavori con tutto il quartiere perché questo rinasca e non cada nell’errore di pensare che dopo anni d’incuria solo ordinanze, polizia e vigilanza possano risolvere il problema.

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