Piacenza, la nuova frontiera della sanità tra voler essere e dover essere

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Primo progetto del nuovo ospedale datato luglio 2021

Sullo sfondo del nuovo ospedale pesano i costi in un equilibrio instabile tra servizi necessari e finanziamenti a disposizione

“Lunga vita alla sanità pubblica”. La frase è diventata quasi un mantra, serve a darsi forza e a non lasciarsi prendere dal panico quando si parla di sanità. L’incitamento-esortazione-affermazione – come dire non può che essere così – si legge sul sito della Regione Emilia Romagna.

Chissà per quanto tempo l’auspicio resterà verosimile. Chiaro scuri si stagliano all’orizzonte lasciando sul campo molta confusione, poca chiarezza e scarsi finanziamenti. Il rischio (per tanti la paura) che i precari equilibri su cui si reggono i servizi oggi possano rompersi è forte. Non aiutano alcune avvisaglie a cominciare dal lamento ormai costante sul fatto che per la sanità i fondi sono insufficienti e che quindi sarà necessario limare, ridurre, adeguare alla capacità di spesa i servizi resi ai cittadini. Ma come si concilia tutto questo con il proposito di rinforzare le strutture di presa in carico dei pazienti sui territori, di qualificare i servizi ospedalieri, di ridurre i tempi di attesa degli esami e delle visite tanto più vitali quando si tratta di malattie tempo dipendenti? In cui il tempo può determinare la guarigione quando non la sopravvivenza?

E che dire di un mondo medico che cambia molto velocemente e che ha bisogno che i decisori stiano al passo fornendo strutture, mezzi, qualità professionali adeguate?

La confusione regna sovrana

Intorno al dibattito sempre infinito sulla sanità c’è un aspetto che a mio parere non viene tenuto in considerazione rispetto a tutti gli altri. Ogni volta che sono in campo progetti di modifica nella politica sanitaria spesso questi nascono dalla necessità di tagli e di risparmi ma non sempre. Il punto centrale è che da decenni ormai le strutture ospedaliere non possono replicarsi uguali a se stesse a distanza di pochi chilometri l’una dall’altra; ogni elemento dell’insieme deve avere una specificità e una specializzazione sia per garantire maggiori risposte alle necessità, sia per compendiarsi al meglio con le altre parti del sistema e all’interno della rete il ruolo focale devono averlo le strutture territoriali che, oltre ai muri e alla strumentazioni, dovranno avere personale preparato e copioso. 

È un processo che è in atto da tempo e che oggi – anche in virtù degli avanzamenti scientifici – diventa sempre più cogente. Tante volte nel dibattito a cui si assiste su questi temi la confusione domina su tutto impedendo di entrare nel cuore del problema. Ma sarebbe il momento di farlo. Indispensabile se si vuole garantire lunga vita alla sanità pubblica.

 “Lunga vita alla sanità pubblica”. Ripetiamolo anche se la voce si fa sempre più flebile. Cimentarsi a parlare di sanità porta a trovarsi immediatamente immersi in una gran confusione dove è difficile raccapezzarsi e trovare un filo conduttore. Se vogliamo circoscrivere il perimetro a quel che succede a Piacenza la nebbia non di dipana e i contorni del futuro restano poco delineati.

Un fatto è certo, Piacenza soffre delle difficoltà che si manifestano ovunque perché per la sanità non son tempi sereni (se mai ci sono stati). Fondi ridotti, mancanza di medici, infermieri e tecnici. Un servizio territoriale abbozzato e da completare, strutture da costruire e a cui assegnare un ruolo capace di essere vicini ai cittadini che chiedono servizi. Sullo sfondo l’esperienza della pandemia che a Piacenza ha mietuto tante vittime e che ha lasciato un insegnamento chiaro e preciso: la necessità di una rete di assistenza sanitaria in cui medici, infermieri lavorino capillarmente là dove si trovano i malati. La domanda è: tutto questo si sta attuando, e come?

Sono scelte che comportano un ribaltamento di impianto che vedeva al centro il grande ospedale a cui ora invece spetta un ruolo di specializzazione sempre più puntuale. L’impressione è che però tutto questo percorso sia solo iniziato e tutt’altro che avviato.

Primo punto: il nuovo ospedale

Intanto al primo punto va messo il progetto della costruzione di un nuovo ospedale che da qualche anno non manca di suscitare contrapposizioni e polemiche.

Per la verità di un nuovo ospedale si è parlato già nel 2015 quando l’allora assessore Giovanni Venturi a Piacenza (l’occasione era l’inaugurazione del ristrutturato day hospital oncologico) annunciò che la Regione aveva intenzione di finanziare due nuovi ospedali: quelli di Piacenza e di Cesena. Su quella frase si iniziò a discutere e l’idea non fu accolta con il favore che lo stesso assessore forse si attendeva.

Uscito di scena Venturi il nuovo assessore Raffaele Donini ha raccolto la pratica e portato avanti il progetto di finanziare un nuovo ospedale per Piacenza concepito secondo i moderni principi della medicina che rispetto agli anni (pochi) della realizzazione del Polichirurgico e della ristrutturazione del vecchio corpo antico dell’attuale ospedale è molto cambiata grazie alle conquiste della ricerca e della tecnologia. Una rimodulazione degli spazi di una struttura ospedaliera è diventata indispensabile (secondo gli esperti è necessario che i blocchi funzionali siano collegati tra di loro perché la risposta al paziente deve essere sempre più multidisciplinare). Sembra infatti questa la parola chiave della futura sanità moderna. Tanto più dopo l’esperienza terribile della pandemia da Covid 19 di cui Piacenza ha sofferto più di altre città.

La capacità delle attuali strutture pubbliche e private

Nel progetto di ospedale illustrato alcuni mesi fa al consiglio comunale si propone un’analisi di contesto che elenca la situazione attuale in termini di servizi e posti letto. I posti letto negli ospedali pubblici sono ora 747 distribuiti  tra Piacenza (487), Castel San Giovanni (109), Bobbio (24), Fiorenzuola (127) per un totale di 1090 posti calcolati al 31 dicembre 2020. Ai 747 posti vanno infatti aggiunti i posti letto delle strutture private accreditate e così distribuite: Clinica Piacenza (141), Sant’Antonino (80) San Giacomo (122) per un totale di 285.943 abitanti (di cui il 25% pari o maggiori di 65 anni) distribuiti in 46 comuni.

I servizi territoriali presenti e da realizzare

La fotografia delle specializzazioni presenti fornisce il seguente quadro. A Piacenza c’è l’hub ospedaliero per emergenza/urgenza ed elevata complessità clinica. Castel San Giovanni è dedicato a chirurgia d’elezione o programmata e ospedale di chirurgia senologia e plastica; Fiorenzuola polo riabilitativo (secondo livello) e Bobbio ospedale di montagna. Accanto agli ospedali dovrebbe crescere una rete di servizi territoriali alcuni già presenti e altri ancora da realizzare. Attualmente ci sono 8 case della salute o di comunità (sono presenti a Piacenza, Podenzano, Monticelli, Cortemaggiore, Carpaneto, Borgonovo, Rottofreno, Bettola) 4 sono ancora da attivare (a Lugagnano, Fiorenzuola, Piacenza e Bobbio). Va detto che su Fiorenzuola il Programma pluriennale di investimenti nell’edilizia sanitaria regionale prevede per la Casa di comunità un milione e mezzo di euro e la realizzazione in tempi brevi. Già finanziato con 760 milioni anche il progetto della casa di comunità di Bobbio che troverà spazio nell’ospedale. Una scelta questa che viene criticata dal Comitato dei cittadini della Val Trebbia che chiede di sapere come sarà organizzata la casa di Comunità, con quale personale, quali servizi saranno organizzati al suo interno. “La delibera dell’Ausl non chiarisce questo aspetto”, spiegano in un documento. Si soffermano poi anche sulla definizione di Stabilimento ospedaliero e chiedono “quali servizi saranno previsti oltre ai 24 posti letto attuali per lunghe degenze e cronicità, quali altre patologie (cardiologia, ginecologia, ortopedia ecc.) potranno essere eseguite nella nuova struttura” e ancora i dubbi si allargano sul tema di emergenza-urgenza e chiedono: “come sarà organizzata a fronte della presenza di due punti chiamati ad occuparsi di codici bianchi e verdi?”… La riorganizzazione territoriale parla poi di 10 ambulatori infermieristici presenti (Piacenza, Monticelli, Cadeo, Fiorenzuola, Lugagnano, Bettola, Podenzano, Rottofreno, Borgonovo, Carpaneto) e 12 gli ambulatori della cronicità, (Caorso, Cortemaggiore, Fiorenzuola, Lugagnano, Bettola, Podenzano, 2 a Piacenza, Rottofreno, Borgonovo, Bobbio, Carpaneto),  due Os.co da attivare (A Piacenza e Castel San Giovanni) come pure tre centrali operative territoriali (in Val d’Arda, in Val Tidone e a Piacenza).

Quali saranno i numeri del nuovo ospedale?

Attorno al nucleo del futuro nuovo ospedale di Piacenza, secondo gli schemi allo studio, è previsto che ruotino alcuni satelliti: le reti ospedaliere periferiche, la rete territoriale sopra elencata, i processi di deospedalizzazione e le nuove strutture come il Centro di Assistenza e Urgenza (CAU) attivato lo scorso dicembre che nelle intenzioni deve svolgere una funzione di filtro per evitare l’intasamento dei pronto soccorso. Dall’esperienza di questi mesi, tuttavia, ci sono valutazioni contrastanti: da un lato l’istituzione che ne dà un giudizio positivo dall’altra gli utenti che invece ne rilevano le difficoltà sollevando  la critica che se si è alleggerito dalle code il pronto soccorso le stesse code si moltiplicano nelle strutture CAU…

Una gestione sicuramente complessa che dovrebbe far perno anche su una riorganizzazione del lavoro dei medici di base. Partita difficile da affrontare e forse irrisolvibile visto che operano non come dipendenti delle aziende sanitarie, ma in convenzione. E questa resta una partita a sé.

La superficie ospedaliera totale che dovrà essere realizzata nell’area 5 (all’interno del perimetro delineato dalla tangenziale) scelta dall’attuale amministrazione comunale si svilupperà su 117mila metri quadrati di cui 5 piani fuori terra e uno interrato. I posti letti saranno 498 a cui si aggiungeranno 80 posti letto flessibili da utilizzare in casi di necessità. Una indicazione, questa, che deriva dalle difficoltà sostenute e vissute durante la pandemia quando si è dovuto trasformare tutto l’ospedale in struttura Covid proprio per la rigidità della struttura esistente. L’ospedale – così è stato illustrato – sarà suddiviso in 8 macro-aree sanitarie così elencate: Piastra multifunzionale di collegamento con hospital street da cui si dipartiranno le altre aree: pronto soccorso, bocco emergenza urgenza, blocco chirurgico, area direzionale, ricerca e didattica; blocco materno-pediatrico; blocco internistico; blocco onco-ematologico; aree ambulatoriali; la zona della morgue e inoltre è previsto anche un asilo, un centro ricreativo per anziani, un’area di ristori e un centro per le associazioni.

I costi lievitati e c’è bisogno dei privati. Quali i tempi?

Come si diceva trattandosi di un’opera grandiosa i tempi necessariamente già in partenza si prevedono lunghi. La direttrice generale dell’Ausl Paola Bardasi ha parlato di sette anni. Un appunto non può mancare e riguarda i tempi già trascorsi per le decisioni che riguardano la struttura di Piacenza e che forse sono andati già oltre i limiti. Complice oltre alla situazione generale (pandemia compresa) anche le divergenze su dove realizzare il nuovo ospedale.  Una prima decisione assunta dal Comune è stata poi accantonata al cambio dell’amministrazione. Nel frattempo sullo scenario internazionale si è affacciato il conflitto in Ucraina che ha portato a lievitare i costi delle materie prime e dell’energia. Da qui la decisione della Regione di finanziare il nuovo ospedale di Piacenza con una compartecipazione tra pubblico e privato. Il programma pluriennale di investimenti nell’edilizia sanitaria approvato a febbraio scorso dalla giunta regionale dell’Emilia Romagna stima un costo di oltre 296 milioni di euro e suddivide così il fabbisogno: 129 milioni di risorse statali, circa 7 milioni da parte della Regione e 160 milioni e 331mila euro da partenariato pubblico privato, cioè la collaborazione con un soggetto esterno – il futuro costruttore – per finanziare la realizzazione e la manutenzione dell’edificio. Una novità che ha colto molti di sorpresa e che ha innescato non poca preoccupazione sul futuro del nuovo ospedale e soprattutto sui tempi di realizzazione. Come potrà avvenire il finanziamento? Chi costruirà potrà anticipare? E questo nuovo scenario rischia di essere una cessione (abbandono) di quell’assunto “lunga vita alla sanità pubblica”?

Sul nuovo ospedale molto attivo un comitato – di cui è referente l’avvocato Augusto Ridella – che ne contesta la realizzazione puntando sul fatto che l’attuale struttura è stata ristrutturata da poco con un forte investimento di risorse e con un Polichirurgico costruito di recente. Il comitato parla di una decisione politica e in quanto tale opinabile da vari punti di vista in primis sui costi-benefici, sul consumo di suolo e sui tempi di realizzazione.

Intanto alcune cose cambiano

Nel frattempo alcune novità si sono registrate anche sulle vecchie strutture e sulla riorganizzazione delle funzioni tra gli ospedali periferici. A partire da Castel San Giovanni e Fiorenzuola che sono stati al centro del confronto politico nelle scorse settimane. Da registrare infatti per quanto riguarda Castel San Giovanni il trasferimento dei posti letto di Riabilitazione ortopedica a Fiorenzuola. A chi segnala trattarsi di un impoverimento si replica che non è così perché a primavera di quest’anno, quindi a breve, a Castello opereranno i professionisti del Rizzoli di Bologna: un’eccellenza della sanità pubblica in ambito ortopedico. Nei prossimi mesi quindi inizieranno le visite ai pazienti e a settembre sarà avviata anche l’attività chirurgica  di ricovero e riabilitativa. L’équipe del Rizzoli si dedicherà a interventi di natura protesica (anca e ginocchio). Questo, secondo le valutazioni positive, contribuirà a un potenziamento della vocazione chirurgica programmata dello stabilimento della Val Tidone. Saranno attivati 16 posti letto di Ortopedia collegati a 8 posti letto di Riabilitazione ortopedica gestiti direttamente dall’Istituto ortopedico Rizzoli. Lo spostamento dei posti letto a Fiorenzuola è funzionale all’avvio dei lavori di ristrutturazione necessari per attuare il progetto. La scelta del Rizzoli non piace al Coordinamento provinciale su sanità e medicina territoriale. Dure le loro considerazioni: “A Castel San Giovanni fino a qualche anno fa esisteva un reparto di ortopedia da tutti considerato di eccellenza che richiamava pazienti dalla Lombardia svolgendo una rara funzione di mobilità sanitaria attiva. Ortopedia – scrive il coordinamento – è stata via via smantellata con la fuga delle migliori competenze verso altre strutture pubbliche e private. Tutto questo veniva giustificato con problemi di messa in sicurezza e di costi col risultato di dirottare l’attività sul Poliambulatorio di Piacenza e in parte sulla casa di cura in convenzione. Ora viene comunicato che l’attività di riabilitazione e chirurgia ortopedica tornerà a Castel San Giovanni ma affidata all’Istituto Rizzoli”. Se l’intervento nel Piacentino di un istituto importante come il Rizzoli di Bologna è inteso come un innesto di eccellenza e di qualità che potrebbe anche spostare pazienti da altre regioni, non la vede così il Coordinamento provinciale. L’argomento centrale della contestazione si concentra sul fatto che l’istituto bolognese opererà in convenzione e di fatto – segnalano – sarà un’esternalizzazione di prestazioni che Castel San Giovanni  forniva autonomamente fino a qualche anno fa. “Anche se pubblico l’Istituto Rizzoli opera sul mercato della sanità con regole che non lo differenziano da altri istituti privati” Segnalano. Anche questo dunque è un ulteriore elemento di preoccupazione sul futuro che si delinea per l’ospedale di Castel San Giovanni che non sarà più un ospedale ma un Presidio di Comunità come già comunicato dall’Ausl. “Mettendo insieme quindi le informazioni – chiosa il Coordinamento – l’ospedale sarà composto da un reparto di degenze brevi (assistenza ambulatoriale a pazienti dimessi altrove) 20 posti letto; un ospedale di comunità a gestione infermieristica per la presa in carico di lunghe degenze e cronicità, 24 posti letto; un’ala della struttura data in gestione all’istituto ortopedico Rizzoli 30 posti letto; un Punto di Primo Intervento (PPI) gestito da medici dell’emergenza urgenza che forse diventerà un Cau gestito da medici di base e guardie mediche (una attività ambulatoriale, da quel che si evince dal protocollo generale).

La sanità non gode di buona salute tradita la riforma dell’80?

Se questo è un prospetto succinto di quello che si discute sul piano locale, allargando lo sguardo allo stivale non c’è di chi gioire e né confortarsi.

La sanità sembra aver raggiunto il punto peggiore della propria esistenza da quando, nel 1980 si diede vita alla riforma sanitaria con l’abolizione delle mutue con l’affermazione dell’ universalismo della cura, con l’istituzione delle Assemblee sanitarie locali espressione dei consigli comunali e l’istituzione di Comitati di gestione che, a dire il vero, naufragarono e battagliarono su fronti politici opposti. Storia antica quella delle Unità sanitarie locali, da tre si passò a un unico organismo. Le Usl  presto furono superate da una Azienda sanitaria locale con una dirigenza apicale incarnata da un direttore generale e, pur mantenendo sempre un parlamentino espressione dei territori con i sindaci o loro delegati, ha proseguito sulla strada impervia di erogazione di servizi (non sempre in tempi ragionevoli) ai cittadini che ne necessitavano. La caratterizzazione di Azienda si è poi accentuata con la federalizzazione della sanità. Non più elaborazione di tutto il paese e convergente in un solo punto, ma una polverizzazione di sistemi sanitari coincidenti con i confini delle stesse regioni divenute titolari della sanità, pur dovendo rientrare nei principi generali delle prestazioni elaborate a livello nazionale. Questa ulteriore riforma arrivò nel 2001 con la modifica del titolo V della Costituzione che assegnava alle Regioni la sanità come terreno di legislazione concorrente. Da qui l’arlecchino dei servizi erogati, la concorrenza spietata (spesso a discapito del paziente). Regioni che funzionano, regioni che non funzionano. Regioni in cui il peso della sanità privata (convenzionata con il pubblico) è cresciuto a dismisura tante volte prendendo il sopravvento… a cui si devono aggiungere costanti riduzioni delle risorse a livello nazionale che, da almeno una ventina d’anni, hanno di continuo rosicchiato il fondo sanitario a disposizione delle Regioni per tenere il livello dei servizi da fornire agli utenti. La prima domanda è semplice: quanto vale ancora il principio della sanità pubblica che fu alla base della riforma iniziale nel lontano 1980? Difficile rispondere, anche se ciascuno di noi mettesse in fila le proprie esperienze personali nei rapporti con il sistema sanitario di oggi marzo 2024.

La confusione regna sovrana anche se ci si vuole addentrare nella sanità di casa nostra con tutti i problemi che si trascinano da anni.

Piacenza è un anello debole nel contesto regionale anche per essere l’unica realtà in cui manca un sistema universitario (da poco è partita la scuola universitaria infermieristica e la facoltà di medicina in inglese) che ne consolidi le pur presenti eccellenze ormai riconosciute e ne faccia crescere altre.

Tanto più difficile tratteggiare un profilo lineare per una realtà che è stretta (anche per ragioni di confini geografici) dalla pressione e dall’attrattività delle città lombarde (poli universitari se si parla di Milano e Pavia) ma anche Cremona che compete soprattutto in termini di tempi di risposta molto brevi per la richiesta di visite specialistiche e anche di interventi.  Su questo versante da tempo la sanità locale “non gode di buona stampa”. Ultima annotazione il declassamento dell’ospedale da parte del sondaggio pubblicato dal Newsweek dove il Guglielmo da Saliceto slitta al 92esimo posto dall’83esimo in cui si trovava. Piove sul bagnato. Chi di noi non ha sentito parenti, conoscenti ripetere “A Piacenza dovevo aspettare un anno per quel tal esame e invece a Cremona me lo hanno fissato subito”. Efficienza o effetto della concorrenza tra le regioni secondo cui i pazienti provenienti da altre regioni sono clienti preziosi (e paganti attraverso il servizio sanitario) e in quanto tali da soddisfare immediatamente?

“Lunga vita alla sanità pubblica” recita il sito della regione Emilia Romagna. Parrebbe un’ovvietà, ma se è necessario ribadirlo, significa che l’assunto potrebbe non avere più le gambe solide per camminare spedito.

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