Piacenza città triste? Rendiamo i giovani protagonisti

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di Bernardo Carli – C’è voluto un quotidiano nazionale per raccontarci che, malgrado la ripresa, la nostra città è “triste”.
Che vuol dire triste? Lo sono per natura i cimiteri, certi uomini e donne, le giornate d’autunno, quelle col cielo grigio, anche se non prive di un fascino struggente. Sono tristi gli amori che finiscono, e pure certe trattorie di periferia o i negozi dove si vende merce dozzinale esposta con sciattezza. Sono tristi anche gli occhi del mio cane quando mi allontano da casa per qualche giorno. Tutto può essere triste, malinconico, mesto, proprio tutto, ma una città intera non può esserlo. Piacenza è un luogo dove la riservatezza va a braccetto con l’ insofferenza per ogni clamore. E’ una questione di carattere, anzi ,una caratteristica degli abitanti, abituati a vivere sul confine tra uno stato e l’altro, tra una regione e un’altra, tra il sud quasi mediterraneo e il nord abbottonato, severamente vigilato dal grande fiume. Tutto questo rende ovattato il clima della città, affina una innata diffidenza per il nuovo che potrebbe generare scompiglio. Lo si percepisce nelle facciate di palazzi austeri che nascondono giardini ombrosi, luoghi di un piacere calmo e riservato. Anche nei quartieri popolari le case strette e sobrie, hanno angusti e bui androni che sfociano in piccoli orti, luoghi di un piacere domestico per i bambini e i vecchi. E’ tristezza tutto questo? Direi proprio di no, e se anch’io ho scelto di fermarmi in questo paradiso , ho pensato che Piacenza potesse essere ideale per il tempo di vita che mi rimane, che spero lungo mentre mi dedico con assiduità a renderlo il più possibile felice. Testimoni di tanta bellezza sono i molti centenari che ancora prosperano nell’intero territorio piacentino. La vita serena alimenta negli abitanti vecchi e nuovi un amore fedele per questa terra che di stagione in stagione si dona con sommessa generosità. Tale è la fedeltà alla città che i piacentini sentono il dovere di rammentarsela e rammentarla in ogni occasione. I social, così in auge in questi tempi, sono un ottimo strumento per comprendere il modo di pensare delle persone. Estemporanei fotografi espongono su Facebook gatti, cani, foto sotto l’albero di Natale o davanti allo specchio, gite al mare, ma i piacentini dispensano alla rete, vedute di Piacenza sotto la pioggia, con il sole, la nebbia e anche piazze e vie deserte o animate, di notte e di giorno con tanto di cavalli Farnese, palazzi gotici, angoli suggestivi, giardini pubblici, botteghe, insomma una quantità di fotografie che fanno pensare che i piacentini altro non abbiano da fare se non ritrarre il loro buen retiro, dove la bellezza, come in ogni fotografia, suume una dimensione atemporale.
Si dice che i Piacentini parlano male della propria città. Niente di più inesatto. Questa gente che non è né lombarda, né del tutto emiliana, che vive gelosamente l’amore per una terra benedetta quanto altrove ignorata, denigra talvolta il proprio bene perché altri non lo facciano. I piacentini, scontrosi amanti della città, rivendicano il diritto di esserne padroni purché ad altri non ne venga la tentazione di diventarlo. Questo è accaduto quanto un improvvido giornalista ha parlato della tristezza di Piacenza. C’era da aspettarsi quello che ne è seguito: anche nei luoghi dove le chiacchiere vanno poco oltre i temi dello sport si è animato un dibattito fatto di smentite risolute; sul tema si sono espressi giornalisti, intellettuali e uomini della strada. Quello che fa specie è che il giornalista abbia associato il termine “tristezza” ai risultati di un economia che tutto sommato non va male. E’ un controsenso in termini, ma se la parola tristezza non è quella giusta, è pur vero che la città soffre di una antica malattia, quella di invecchiare progressivamente, di non sperare in altro se non di restare tale e quale: un luogo nel quale ai giovani è concesso d’essere apprezzati solo nella misura in cui siano eguali ai “grandi”, dove lo spazio di creatività è poco, dove la diffidenza per ciò che porta il domani fa sognare che la città stessa non si allontani dal proprio modello, accettando solo una inevitabile ma lentissima crescita. A ciò si aggiunge il fatto che la città sia chiusa a tutto quello che avviene fuori di essa: gli abitanti conoscono magari i mari del sud o il circolo polare artico, mete di viaggi avventurosi, ma diffidano di quello che sta oltre il fiume o sotto la val d’Arda. Chi amministra raramente si sposta per guardare oltre il proprio territorio. Per definire questo brutto vizio, non ho trovato di meglio che la parola “autoreferenzialità”, un impedimento che limita la città stessa tutte le volte che si espone sul piano nazionale: la sconfitta come capitale della cultura è l’ultima di una serie di scippi operati dalla città più vicina. Era scontato che di fronte al giudizio tanto severo, i piacentini tutti accorressero a smentire, rinnovando le sperticate lodi per bellezza della città, il patrimonio storico esorbitante, i natali nobili, i salumi incomparabili e chi più ne ha più ne metta. Occorre un po’ di obbiettività, uno sguardo a quello che accade fuori dai confini, un briciolo di umiltà nello scindere l’amore dalla incondizionata ammirazione; solo così si potrebbe pensare ad un futuro nel quale la tristezza vera o presunta non trovi più ragione d’essere. Questa è la condizione indispensabile per elaborare un progetto serio che potrebbe animare quelle foto e farci scoprire meraviglie e bellezze mai sospettate. Ma questo futuro non potrà che vedere i giovani come protagonisti. Questi però hanno impellente bisogno di spazio e libertà di esprimersi con modalità che solo loro sanno, ed infine occorre accettare che questi ci assomiglino poco. Francamente lascia poco da sperare l’impegno profuso fino ad adesso dalla nuova amministrazione nel demolire tutto quello che esiste, primi tra tutti gli spazi per la popolazione giovanile e le iniziative culturali *.

*rete ready, Spazio 4, spazio Belleville, Pulcheria , Campo Nomadi, Viabilità, Cinema Estivo …

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