Opinioni – Centri commerciali, Piacenza aspira
forse a diventarne la capitale?

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di Bernardo Carli – Un interessante pezzo a firma di Ernesto Ferrante, uscito qualche mese fa su “Opinione Pubblica” online, riprende un vecchio argomento : l’incremento dei Centri Commerciali a svantaggio dei negozi di vicinato.
Il tema, che nell’articolo viene ben documentato, risulta di attualità per una città come Piacenza.
Forti dell’idea che il commercio sia l’anima di una comunità, siamo alla vigilia della apertura di nuove strutture, come se quelle esistenti non fossero già troppe per una popolazione che tutto sommato si nutre solo due volte al giorno, guarda un solo programma televisivo per volta, indossa il cappotto solo in inverno e fa festa nelle occasioni comandate.
Non vi è dubbio alcuno sul fatto che la presenza della grossa distribuzione soffochi la piccola, non in grado di competere con i prezzi consentiti solo dall’economia di scala. L’evidenza sta davanti a tutti: saracinesche chiuse un po’ ovunque, fondi commerciali anche di pregio sfitti, un centro storico che fa fatica a mantenere il ruolo di aggregazione rispetto ad un modello millenario. Diversi studiosi affermano che nell’era della “post modernità”, il ruolo della Agorà, del Forum, della Piazza medievale civile e mercantile, viene svolto dai centri commerciali e ancor più dalla rete telematica.
Stante quello che si diceva la moltiplicazione delle occasioni commerciali (sbaracchi, notti di negozi aperti, domeniche tutto shopping, aperture nelle feste comandate) non può sortire alcun benefico effetto se non spingere taluni alla compulsività, oppure, visto da un ex educatore quale sono, indurre nei giovani una interpretazione falsata del concetto di consumo.
Cito un piccolo episodio al quale ho assistito: una mattina dei giorni che precedono il Natale, in un grosso centro dove si vendono mobili e accessori, una mamma, entrando, raccomandava al figlio piccolo: “non farti prendere dall’ansia, oggi potrai finalmente trascorrere una intera giornata qua dentro”. Grande comprensione per questo povero innocente che ha avuto in sorte una madre imbecille.
Ma tornando al tema piacentino, pongo una domanda: non è proprio quel commercio che invochiamo ovunque il responsabile della rovina del centro storico?
L’atavico rapporto di socialità tra il venditore e l’acquirente nel “rito” dell’acquisto, erede del baratto primordiale, muore nel supermercato dove non solo le qualità del bene vengono illustrate dalla sola etichetta, ma addirittura il pagamento alla casa automatica avviene nel più totale isolamento, rotto soltanto da una voce (registrata) che scandisce le modalità del pagamento stesso. Nel mondo arabo l’acquisto di un qualunque bene è occasione di relazione, di trattative, di conoscenza tra il venditore e il compratore. Oggi si è perduto del tutto quel costume in auge nella mia lontana infanzia quando la mamma, dopo avermi fatto provare un paio di scarpe, iniziava una trattativa con il negoziante per ottenere quel piccolo sconto che era fonte per lei di soddisfazione e per lo stesso commerciante, che aveva concesso poco agli attacchi e alle lusinghe, la certezza di saper svolgere bene il proprio mestiere.
Sta di fatto che i centri commerciali hanno prodotto una radicale disumanizzazione nei rapporti, alimentando quel controsenso che ci vuole globalizzati e “connessi”, ma sostanzialmente soli.
Malgrado tutto questo decadimento, si continua ad aprire giganteschi negozi nella nostra città. Se Piacenza aspira ad essere capitale di qualche cosa, credo che la sua vocazione sia quella di capitale dei supermercati. Sì perché qui ce n’è un numero che non ha confronti con altre città: non v’è strada di accesso che non ne conti da tre a cinque o sei.
Ernesto Ferrante, il giornalista del quale dicevo all’inizio, ci racconta che nei paesi più avanzati del nostro (rassegnamoci, l’Ocse ci mette all’ultimo posto dell’Europa), non si aprono più Centri commerciali e supermercati . Negli Stati Uniti, dove sono nati, ne stanno chiudendo centinaia. Sono luoghi nei quali i lavoratori vengono spremuti con contratti umilianti. Le aperture giornaliere fino a tarda ora e gli obblighi imposti di lavorare anche nelle festività impediscono ai dipendenti di poter avere una vita familiare e sociale normale. I contratti prevedono turni massacranti a fronte di retribuzioni basse; inoltre la progressiva automazione dei servizi e la razionalizzazione delle reti sta comportando licenziamenti e mobilità all’interno di vasti comparti territoriali. Questo per quanto concerne i diritti dei lavoratori.
Per quanto invece riguarda le attività, si tenga presente che le aperture dilatate e festive, da dati comprovati, non comportano significativi incrementi del volume di vendite. A questa conclusione più modestamente noi c’eravamo già arrivati quando sostenevamo che, a fronte di una popolazione stabile (se non i decrescita), i bisogni, anche se spinti con le più raffinate strategie di marketing, non possono aumentare.
Da qui uno stato di crisi o di ridimensionamento delle aziende che le porta a reperire utili ad ogni costo: una vera e propria guerra tra giganti dove i soggetti deboli sono i lavoratori delle intere filiere (sfruttamento a livello di schiavitù nel comparto agroalimentare), ma anche consumatori e produttori, i primi costretti alla bassa qualità dei prodotti, i secondi ad abbassare i prezzi fino all’inverosimile.
Nel frattempo il piccolo commercio di vicinato, vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro, soccombe da tempo e non ha più rinnovo generazionale. Avanti così.

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