Che la popolazione sia accorsa entusiasta e numerosa a calpestare il fresco asfalto del ponte ristrutturato non fa che confermare valida, quant’altri mai, la convinzione del mai troppo lodato Leopardi: “Piacer figlio d’affanno”. L’affanno, in questo caso, è stato soprattutto dei cittadini di riva sinistra del Trebbia (Rottofreno, Calendasco, San Nicolò) che per più di tre mesi sono stati confinati in una sorta di “locked in” geografico: raggiungere Piacenza comportava disponibilità di tempo, fatica, imprecazioni. Ora tutto è finito e già (quasi) dimenticato da (quasi) tutti: non da commercianti ed operatori economici con attività lungo il tratto di via Emilia interessato dalla chiusura del ponte (il fatturato estivo è naturalmente crollato), non dagli esercenti che in giugno, luglio e agosto (con l’assiduo sostegno del sindaco Veneziani, questo va detto) hanno cercato di animare e trasformare in festa il deserto della porzione orientale di San Nicolò. Per loro – nel giorno degli evviva per l’oggettiva liberazione – anche la beffa di una festa a lungo preparata e vanificata dall’anticipo di giorni tre della riapertura.
Poi, naturalmente, tutto è bene quel che finisce bene: il restauro del ponte non era più rinviabile, la lunga estate calda è terminata, i sannicolini forse manterranno qualche collegamento ferroviario in più, le lunghe code e gli assurdi, continui, tamponamenti sul ponte Paladini (speriamo) un ricordo di questa strana estate. Resterà anche la sensazione di moderato stupore per le lodi sperticate a un’impresa che ha onorato il contratto terminando i lavori secondo previsioni (bravi, ma questa dovrebbe essere la norma); così come resterà la sensazione di fastidio per la supponenza di alcune dichiarazioni. Opera di politici, diciamo così, provinciali.