Quel sassolino nella scarpa
Facciamo nomi senza cognomi

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di Jennifer Ravellini – Che la lingua sia per definizione in continuo movimento è chiaro ormai a tutti. Neologismi, parole dall’etimologia incerta o fantasiosa e vocaboli stranieri accolti senza variazioni. Il lessico familiare della Deledda non ci appartiene più. Anche i nostri nonni preferivano parcheggiare con un termine francese anziché esprimersi in un farraginoso autorimessa. A noi spetta però l’onore d’inaugurare arditi chattare o googlare che non avrebbero certo potuto trovar posto nel buon vecchio Zingarelli di qualche anno fa. In fondo siamo un Paese di emigranti abituati ad esprimersi in una lingua di nicchia che  costringe a scendere a patti con un inglese necessario, un tedesco detestato e un francese altezzoso di cui ci si vendica nelle barzellette.
Le abat-jour si accenderanno sempre col benestare della moda vintage, i club sandwich non saranno mai declassati a semplici panini e l’ovetto Kinder negherà la sorpresina a chi lo confonderà col classico cioccolato. Guai però a declinare i vocaboli stranieri. Sottolineare il plurale curricula non rende eruditi ginnasiali, ma fastidiosi ignoranti che non sanno che i termini stranieri in italiano rimangono invariati.
Con gran sollievo, si apprende l’inesorabile tramonto dell’apericena e l’ascesa del brunch. Perché, diciamocelo francamente, quant’è più bello ritrovarsi la domenica mattina tutti stropicciati a sorseggiare una tazza di caffè americano, piuttosto che accrocchiarsi sotto sera con sorrisi di plastica e fegato in sovraccarico?!
Quando traslochiamo un termine da una lingua alla nostra, prendiamo in prestito suggestioni e abitudini che non ci appartengono, ma che, in un modo o nell’altro, finiranno per influenzarci e per ampliare i nostri orizzonti. La lingua si piega alle esigenze della vita, ma ci guarda con beffarda ironia quando si sente raggirata: gli operatori ecologici non hanno più dignità degli spazzini e il collaboratore scolastico non è rispettato più di un bidello.
Cambiare i nomi può momentaneamente modificare la percezioni, ma non agisce sui contenuti. Un titolo furbetto colpisce l’attenzione, ma non influisce minimamente sulla qualità di un romanzo. Non basta sostituire l’etichetta di un vaso per variarne il contenuto. Se fosse sufficiente cambiare il nome di un quartiere per risolverne le problematiche, i cittadini sarebbero disposti a tradire la toponomastica in vista di una riqualificazione efficace e lungimirante. In fondo cos’è un nome? Non era forse Shakespeare a dire che quella che chiamiamo rosa conserverebbe il suo dolce profumo anche con un nome diverso?
A volte però chiamare le cose col loro nome evita di confondere le idee e serve per capire meglio la realtà che ci circonda, svelandone la storia e suggerendo nuove prospettive.

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