Vaciago: c’è un pendolo
nella storia dell’uomo

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vaciago1Nel dicembre ’96, l’economista Giacomo Vaciago – già da un paio d’anni sullo scranno più alto di Palazzo Mercanti  – rilasciava un’intervista al direttore di Corriere Padano Antonella Lenti, per il mensile Piacentini, in cui spiegava da par suo il ruolo dell’economia, e della politica, nella vita dell’uomo moderno. Il terremoto di Tangentopoli era un ricordo recente e l’euro doveva ancora affacciarsi sui mercati finanziari eppure  le riflessioni del professore sono ancora oggi di grande attualità. Le riproponiamo per intero.

Vaciago: c’è un pendolo nella storia dell’uomo (a cura di Antonella Lenti)

Quali riflessi dell’economia sull’evoluzione- o l’involuzione della società e sulla vita quotidiana delle persone? I temi economici- seppure tradotti in volgare- fanno ormai parte del linguaggio comune. E’ ciò che dà il ritmo alla vita quotidiana delle persone ed è ciò da cui non può prescindere qualsiasi decisione si debba affrontare. Ed è forse un segno dei tempi che, a più riprese e in più occasioni, gli economisti animino i dibattiti, confronti e tavole rotonde. E’ quindi l’economia il motore che governa la politica e gli uomini?
Lei, prof.Vaciago, che spesso è richiesto per interventi, commenti su temi economici particolari o generali , quale ruolo pensa che abbia l’economista in una società come la nostra? Un “oracolo” del nuovo millennio? O è invece un supplente della politica che non c’è?
Lei peraltro è un economista che si è affacciato alla politica nella fase in cui quest’ultima – anche a Piacenza – ha evidenziato tutta la sua debolezza e “vacanza”.
C’è sempre un pendolo nella storia dell’uomo, tra dimensione spirituale e dimensione terrena, tra economia e politica, tra pubblico (nel senso collettivo) e privato (nel senso individuale). E in ciascun momento, la storia di ciascun paese coglie un fotogramma di quel film. Ciascuno di noi, immerso nella storia, fatica a coglierne il movimento. Ma se ripensiamo a come era il mondo, dieci, o venti o cinquant’anni fa, le differenze risultano più evidenti delle analogie.
In quale rapporto sta lo sviluppo economico della città con la fisionomia sociale della realtà piacentina?
La ricchezza sociale di una città come Piacenza continua a sorprendermi. Credo che in pochi altri abbiano la mia fortuna, di essere coinvolti in così tante esperienze, in così tanti momenti associativi, in così tante dinamiche di crescita. Ciò che a prima vista mi sembra frantumazione e diaspora è in realtà, a ben guardare, pluralismo e complessità. Il vuoto di leadership e la carenza di carisma, tipico degli anni passati, sia nel mondo politico sia nel mondo economico sia nel mondo religioso, ha prodotto spontaneismo ed egoismo. Ma vi sono enormi energie potenziali, solo che si riesca a incanalarle su obiettivi significativi. Lo sviluppo economico è uno di questi: è di solito causa (e non conseguenza) di cambiamento; ,ma non avviene mai per caso.
“Era meglio quando andava peggio?”
Nel senso che ad inflazione alta corrispondevano alti tassi di rendimento sui titoli, condizione che favoriva una spiccata propensione all’euforia e una disponibilità al consumo che in questi ultimi tempi si è fortemente ridimensionata. C’è del vero in questa supposizione?
Dopo la sbornia resta il mal di testa. Ed è in questa fase che si promette di far vita da astemi. Fuori di metafora, abbiamo a lungo vissuto in una situazione di droga inflazionista in cui poteva sembrare che ci fosse tutto per tutti. I sacrifici di alcuni potevano essere irrisi o considerati inutili, visto l’esempio dato dai tanti che erano- o che apparivano- senza limiti. In realtà stavamo “vivendo al di sopra delle nostre disponibilità”, cioè mangiando il capitale ereditato e/o accumulando debiti che avremmo lasciato ai nostri figli da pagare. L’intera vicenda è stata dominata, negli ultimi 15 anni, dalla crescita del debito pubblico, che ha illuso i risparmiatori, cui sono stati pagati rendimenti “irreali”. Oggi stiamo rientrando: stiamo rientrando nella stabilità monetaria (fine dell’inflazione come lubrificante sociale) e in quella finanziaria (fine del deficit come promessa senza limite).
Come è possibile governare (e chi li deve governare) i contraccolpi determinati dalla fuoruscita da una situazione “drogata”, fuoruscita che sembra aver provocato uno shock per tutti?
Il ripristino di condizioni di normalità richiede un nuovo patto tra classi sociali (che in base al tipo del loro reddito sono: lavoratori dipendenti o autonomi; rentiers finanziari o immobiliari; imprenditori); ma anche un nuovo patto tra generazioni (per risolvere problemi come quelli dell’occupazione  e di un sistema pensionistico sostenibile). I due “patti” sono cose ben diverse, e mi preoccupava come nell’odierna confusione italiana non si riesca a darvi soluzione in modo corretto.
Raggiungere L’Europa. E’ il sogno- quasi incubo- di operatori economici, politici, e gente comune.
Si ha l’impressione che se da un lato i parametri della nostra finanza pubblica sono ben al di sotto di quelli richiesti per stare al passo con gli altri paesi europei, il livello di vita della gente nel nostro paese sia ben al di sopra di quello di tedeschi, inglesi, olandesi ecc.
E’ solo una questione legata all’effimero che si respira nel Belpaese, o c’è dell’altro?
Gli alti tassi di interesse pagati ai risparmiatori o l’evasione fiscale assai diffusa, alimentano modelli di consumo che non hanno confronto con quelli di altri Paesi. L’effimero è conseguenza e non causa di ciò, la stessa spesa pubblica, onnipresente seppure non sempre di qualità, è un indiretto sostegno alla spesa privata. Ne è risultato un modello di consumi emulativi che caratterizza soprattutto il giovani e li contrappone ai loro genitori assai più parsimoniosi.
L’ingresso in Europa è più un problema di parametri economici o un problema di cultura e di culture?
Tutti e due seppure in ordine inverso. L’Europa “tedesca” che sta vincendo ordine, solidità e solidarietà. L’Italia ahimé, è completamente differente.
Politiche economiche. Sembrano essere il fine e il mezzo di tutti i governi. Ciò a scapito delle vere politiche di riforma che, in ultima analisi potrebbero essere esse stesse delle politiche economiche con effetti positivi di lungo periodo. Anche attorno all’azione del governo dell’Ulivo stenta a prendere corpo la poltica delle riforme a favore delle politiche finanziarie. Sintomo di latitanza della politica? Ovvero chi di dovere non decide, ma demanda?
Le riforme sono utili e possibili con governi che durano. Ma quando si vive alla giornata, e si naviga a vista le riforme sono un alibi. Più servono, meno riescono a fare.
Primo paradosso: nel mondo ricco aumenta la disoccupazione. Così in Italia, così in Europa. Ma non in America. E’ quindi una condizione necessaria, per eliminare o ridurre la disoccupazione, arrivare a una “deregulation” del lavoro? Ridurre gli ammortizzatori sociali? Eliminare i diritti conquistati?
La disoccupazione del “mondo ricco” ha tante cause: anzitutto è sopportabile (grazie agli ammortizzatori sociali e individuali, cioè grazie all’aiuto collettivo e/o della famiglia), e quindi non viene veramente affrontata come grave problema sociale (come invece fu, ai tempi della Depressione degli anni ’30). Corrisponde ad un modello di selezione (territoriale, sociale, per età, etc…) che sminuisce la portata delle affermazioni di uguaglianza, che sono alla base del contratto sociale europeo. In America, c’è il modello delle opportunità senza pretesa dell’eguaglianza, e quindi c’è lavoro per tutti seppure con modalità molto diverse. Se vogliamo un “pieno impiego”americano, in Europa, è facile ottenerlo: decidiamo chi sono i negri, chi sono gli “ispanici”, e così via; e poi lasciamo che i mercati offrano a tutti un salario in funzione del colore della loro pelle. Un po’ sta già avvenendo.
Secondo paradosso: nel mondo povero si muore di fame sempre di più. E le produzioni qui esportate rappresentano per il mondo ricco una concorrenza impari in termini di costi e della manodopera. E lo squilibrio cresce. Che fare?  Esportare oltre alle produzioni anche il sindacalismo?
Non sono certo che vi sia uno squilibrio che cresce. Certo si muore ancora di fame e soprattutto più si è poveri e più ci si ammazza per poco (vedi le recenti, immense stragi in tanti paesi africani). Lo sviluppo  di questi Paesi richiede uno sforzo enorme di tutti, uno sforzo loro e nostro per modernizzare la loro società e la loro economia. Per trovare un punto d’incontro stabile tra la loro cultura tradizionale – che non va sradicata – e i modi di produzione moderni. Senza questi ultimi non c’è sviluppo; non ci sarebbe stato neanche da noi.
Sviluppo ed ecologia. Difficile, laddove governano gli interessi economici, che si manifesti una adeguata politica di rispetto dell’ecologia. E a maggior ragione quando imperversano problemi gravi come la disoccupazione, la povertà ecc.
Da anni si va dicendo che è necessario ripensare allo sviluppo compatibile. Ma non lo si ripensa. E ci si trova sempre nel mezzo di gravi dissesti. (Vedi le alluvioni di questi ultimi anni). Ebbene, è un processo irreversibile?
In realtà l’ecologia è un prodotto di una cultura che non si improvvisa. Il povero, chi fatica a sopravvivere, non perderà certo il suo poco tempo rimasto per meditare sul valore universale dell’ambiente che ci circonda e che ci ricambia per l’attenzione e la cura che gli dedichiamo. Il capitalismo lungimirante, attento al valore economico di lungo periodo, è per suo stesso interesse preoccupato dei valori ambientali. Il capitalismo di rapina – quello anche detto del “mordi e fuggi” – è troppo miope per preoccuparsi della insostenibilità  dei suoi profitti. Chi di noi ha figli e/o ragiona in termini di lungo periodo, è sempre preoccupato dei valori ecologici.
In tutti i periodi di crisi si misura il livello di maturità raggiunto da una società. Maturità politica, maturità democratica e maturità culturale. E in questo periodo di crisi della politica si evidenzia un sempre maggior distacco e una sorta di colpevolizzazione a priori di tutto ciò che appartiene a questa categoria. E come nessuno nei periodi di “vacche grasse” si è mai chiesto come mai ciò avvenisse, e si era ben disposti a credere a una sorta di miracolo italiano, tutti, ora che le vacche sono dimagrite, si chiedono perché e nessuno si sente responsabile delle scelte del passato. E si ricorre ai conti, all’economia, che si vuole detti regole tagliate sempre sulla misura degli altri: i dipendenti sui liberi professionisti, i commercianti sul piccolo impiego,eccetera…  Intravede la fine di questa spirale?
I miopi sono pessimisti perché vedono solo i guai loro vicini. E purtroppo il nostro sistema politico non riesce ad essere lungimirante, cioè a guardare avanti. La politica dovrebbe risolvere i problemi, ma quando non funziona diventa essa stessa un problema. Nel nostro Paese, siamo ancora nella fase distruttiva- quella della frantumazione, della molteplicità dell’offerta politica, cioè del bipartitismo inteso nel senso di “ogni partito si divide in due”. Non è ancora iniziata davvero la fase costruttiva – quella della riaggregazione, della sintesi. Sia il Polo che l’Ulivo sono coalizioni deboli e dal futuro incerto. La stessa alternanza tra opposte coalizioni è lungi dall’affermarsi. Tanto è vero che finora governa “chi ha perso di meno”: Berlusconi nel ’94 perché, pur senza una maggioranza, aveva più seggi dei progressisti; Prodi nel 1996 esattamente per lo stesso motivo; non ha la maggioranza ma solo più seggi dell’antagonista. Devo concludere che nella sua superiore saggezza il popolo italiano non vuole che nessuno abbia una vera maggioranza- e possa così governare con piena responsabilità- fintanto che non sono state fatte sufficienti riforme per consentire che ciò sia utile e non pericoloso.

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