Troppi architetti, Baracchi e Faroldi:
“Il futuro della professione? Associarsi”

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Matteo Faroldi e Giuseppe Baracchi

In Italia ci sono troppi architetti rispetto alla domanda. Il segreto per sopravvivere professionalmente  è uno soltanto: muoversi, andare all’estero”. Questo ha dichiarato l’archistar Stefano Boeri. Ma è davvero così? Lo chiediamo all’architetto Matteo Faroldi, segretario dell’Ordine degli Architetti di Piacenza. “Il problema – risponde sollecito – risiede nella domanda, che in Italia non è alimentata in maniera corretta. Dal punto di vista architettonico e artistico abbiamo un patrimonio immenso, tra i migliori al mondo, ma ciò che manca è l’incontro fra domanda e offerta: avremmo bisogno di architetti per i monumenti, per il paesaggio, per le infrastrutture ma gli architetti non sono messi nella condizione di esprimere il loro potenziale professionale. Condivido il pensiero di Boeri quando dice che dobbiamo rivedere il nostro approccio alla professione, ma preciso che per farlo non è necessario andare all’estero. Dobbiamo restare qui e riformare il nostro modo di lavorare. Operare in veste di singoli professionisti, ognuno con il suo micro studio, oggi è un anacronismo; dobbiamo imparare a consorziarci, organizzando studi associati nei quali fare team, così come avviene all’estero”.
“Ragioniamo pure sui numeri – ora a parlare è Giuseppe Baracchi, presidente dell’Ordine – E’ vero che in Italia gli architetti sono 154mila ma quelli che svolgono realmente la professione sono circa 90mila. Resta un numero cospicuo, decisamente al di sopra della media europea. Di questi, però, il 98,2% opera in studio singolo o in studi estesi fino alle due unità, quindi al di sotto dei parametri richiesti per potere partecipare ai bandi europei. Sotto questo aspetto siamo indietro, e non va bene. Paghiamo un indubbio ritardo culturale: la figura dell’architetto – oggi – ha perso molto del suo fascino, in qualche misura ha perso anche credibilità. Lo dico pensando ai fasti del passato, da quello prossimo fino ad arrivare al Rinascimento. Viceversa, oggi, ci si trova di fronte a una moltitudine di figure professionali che probabilmente, per necessità, non svolgono la professione perché occupati in tutt’altro. Si badi, non per demerito loro, bensì per carenza di opportune competenze professionali. La causa? A mio avviso risiede nell’assenza, a monte, di una opportuna regolamentazione.
“Le normative e i regolamenti comunali in campo edile, – riprende Faroldi – dovrebbero preoccuparsi di alzare l’asticella delle professionalità richieste. Faccio un esempio: i centri storici di borghi come Castell’Arquato, Bobbio, Cortemaggiore dovrebbero essere tutelati dalla Sovrintendenza e in fase di ristrutturazione e riqualificazione dovrebbero poter intervenire solo professionisti qualificati, con una formazione culturale corretta, adeguata ai fini della tutela e della salvaguardia del patrimonio. Così come esiste il medico di famiglia, dovrebbe essere istituzionalizzata la figura dell’architetto ‘condotto’ (come lo definisce Renzo Piano), ovvero quella figura che è in grado di coordinare i numerosi soggetti che gravitano intorno al paesaggio, all’urbanistica e all’edilizia. L’architetto ha sensibilità umanistica e competenze tecniche per cui è in grado di operare interventi di architettura qualificata a partire dal giardino condominiale fino al parco pubblico, ovvero è in grado di passare dal particolare al generale. E’ una questione di metodo. E c’è spazio per tutti: gli altri professionisti, geometri e ingegneri, hanno specializzazioni tali che vanno a completare la figura dell’architetto, che diventa così un regista. Lo scopo ultimo della nostra professione, il core business diciamo, deve coincidere con la cura del territorio”.
Alcuni osservatori, anche in tempi recenti, hanno criticato gli architetti piacentini per essersi ritirati ad abbellire “il loro pezzetto di città”, senza pensare alla elaborazione di un’idea di sviluppo collettivo del territorio.
“La grande fatica del nuovo consiglio dell’Ordine in questi primi due anni di mandato – spiega Faroldi – è stata quella di ricucire la presenza degli architetti al tessuto dirigenziale del territorio. Far capire che gli architetti esistono e devono essere ascoltati. La nostra professione, in ogni processo di sviluppo, che si tratti di una nuova tangenziale, di un parco pubblico, di un piano di case popolari o di riuso del territorio, ha una competenza che deve essere presa in considerazione”.
“Non dimentichiamo la politica – interviene ancora  Baracchi -. Quando l’architetto indossa l’abito del pianificatore la sua interlocutrice principale è la classe politica, e con essa non è facile relazionarsi. Ecco, noi abbiamo cercato di riportare l’attenzione sul nostro ruolo. Ma l’Ordine può presentare le istanze di una categoria (anche se non siamo un sindacato) nel senso che abbiamo la possibilità di mettere a fuoco un tema, di lumeggiare una problematica (per esempio: abbiamo proposto eventi sulle aree militari, sul fiume Po, sulle energie alternative), ma da lì in poi la responsabilità appartiene al ceto politico. Alla politica spetta l’onere di dare gambe ai progetti di risoluzione dei problemi che via via emergono. Certo, ci sono anche nostre responsabilità, anche a livello nazionale, per quanto riguarda la cattiva pianificazione spesso però scaturita da progetti politici deficitari. Renzo Piano sostiene che bisogna progettare pro veritates, cioè che si deve essere convinti di avere adottato un progetto corretto negli interessi del pubblico: solo così si fa bene questo mestiere. E ancora, alla domanda se l’architetto deve impegnarsi in politica? Piano risponde che il sostantivo politica deriva da polis, l’architetto fa quindi politica, certo, ma per la città, per il bene comune. Ci riesce? Spesso no  –purtroppo – perché appunto si entra in quella zona grigia fatta di mediazione e contrattazione”.
A Piacenza abbiamo una facoltà di architettura da cui escono circa 40 nuovi architetti ogni anno. Ma il giovane architetto che cosa fa oggi?
“Non è detto – adesso risponde Baracchi – che l’architetto debba impegnarsi esclusivamente in edilizia e nella pianificazione poiché, essendo figura umanistica, può realisticamente rappresentare  nuove forme di professionalità. Come Ordine, infatti, siamo impegnati nella realizzazione di incontri sul profilo dell’architetto in tutti i campi: dalla moda alla fotografia, dal teatro alla pittura al cinema. Insomma, ci sono nuove opportunità per i giovani architetti, altri modi di intendere la professione. Ora, grazie alla tecnologia, si possono fare cose che la mia generazione, nel  migliore dei casi, poteva solo sognare”.
“La facoltà di architettura – riprende Faroldi – forma professionisti che coniugano il coté umanistico con l’aspetto tecnico, professionisti  in grado di affrontare progetti che possono spaziare dalla rappresentazione teatrale a un piano di utilizzo dei mezzi pubblici”. “L’importanza del progetto – concorda Baracchi – è fondamentale:  è la somma di tante competenze, che coinvolgono altre figure professionali, ognuna con la propria peculiare professionalità, in un’unica ampia visione. Il futuro deve essere questo, mettersi insieme, l’attuale  98 per cento di studi uni-professionali deve ridursi al 50 per cento”.
“Ma la politica – sottolinea ancora  Faroldi – deve riuscire ad incentivare le citate forme di associazionismo (si badi, in modo concreto) perché oggi come oggi associarsi non è conveniente”. “Gli stessi ordini professionali – chiosa Baracchi – dovrebbero mettersi d’accordo a livello nazionale per intervenire assieme sul Governo al fine di risolvere le questioni professionali e fare in modo che lavorare insieme – un architetto, un geometra, un ingegnere – diventi conveniente. Solo così si può incentivare la creazione (e la necessaria proliferazione) degli ormai indispensabili studi associati”.

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