OPINIONI – Il “dipendente infedele” non si giustifica
ma occorre rivedere anacronistiche burocrazie

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di Bernardo Carli – Il termine “tradimento” indica un atto grave  di “infedeltà”, che reca danno alla persona o entità alla quale si è fatta solenne promessa. E’ “dipendente infedele” colui che manca ai doveri sanciti dal contratto di lavoro che ha sottoscritto.
Sono impiegati infedeli quelli che anche a nella nostra città sono stati sorpresi ad occuparsi di faccende private nelle ore destinate a “servire” la pubblica amministrazione, che è la collettività composta da ogni cittadino, giacché è questa che provvede al loro salario. Il fatto è grave e in altri contesti il comportamento all’attenzione della magistratura, è assimilabile al “tradimento”.
Non è lontano il tempo nel quale l’ingresso nella pubblica amministrazione era condizionato da un atto formale di promessa solenne ed infine di giuramento con tanto di mano aperta sul tricolore. Non è lontano, giacché chi scrive, come suo padre e suo nonno, promisero e giurarono di essere servitori dello Stato. Rammento ancora quel giuramento e l’onore di entrare a far parte di una sorta di “nobile casta” vanto della famiglia da più di tre generazioni.
Convinto più che mai che per infedeli o traditori le pene debbono essere severe e tra questa per prima l’espulsione dalla “nobiltà” di cui dicevo,  mi domando tuttavia il perché di quanto è accaduto, giacché il gesto mette in dubbio la moralità di ben 50 persone apparentemente per bene. “Tanto, per quello che guadagniamo” è una giustificazione scandalosa, tanto più in tempi nei quali tanti sono costretti a lavori sottopagati pur di portare a casa qualche soldo e una dignità da spendere con figli, amici e conoscenti. Non si può nemmeno lamentare l’iniquità del lavoro, lo stress, la fatica, mentre c’è gente che per pochi spiccioli si sottopone a lavori pesanti, nei campi, nelle officine o soltanto nei call center. Si potrebbe attribuire il fenomeno al nefasto decadimento dei valori morali, ma questo tipo di ragionamenti non fa parte di chi, come noi, vuole credere che il futuro debba essere onorato dalla convinzione che possa essere migliore del presente. E allora, dove sta la risposta alla domanda che ci siamo posti? Forse dobbiamo tornare ad accettare il lavoro così come lo interpretò nel 1099 lo scultore Wiligelmo nei rilievi del Duomo di Modena, schiene curve per espiare la condanna inflitta da Dio agli uomini dopo la cacciata dal Paradiso Terrestre?
Chi scrive si è imposto di far sì che nel proprio lavoro, il senso del dovere fosse mitigato dal piacere di essere parte attiva della comunità. Questa pratica, che dovrebbe essere insegnata ai giovani, prevede scelte difficili che spesso contraddicono il principio del maggior guadagno, ma rendono più serena l’esistenza. Il lavoro, qualunque lavoro, deve essere fonte di soddisfazione, offrire occasioni di libertà e creatività, deve premiare l’iniziativa anche all’interno di quelle burocrazie che si esprimono caparbiamente come acritiche osservanze di disposizioni delle quali si è perduto senso e origine. La frustrazione per un lavoro poco gratificante non giustifica il “tradimento”, ma lascio ai lettori la possibilità di riflettere che questi episodi accadono più sovente in contesti governati da anacronistiche burocrazie.
Al nuovo Sindaco, assieme al rigore, la raccomandazione che più volte abbiamo fatto: introdurre nella “azienda comune” una nuova filosofia rivedendo tutto, dai organigrammi ai regolamenti.

Bernardo Carli, animatore culturale e fondatore de La fabbrica dei grilli

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