La “grande Piacenza”, Spagnoli:
“No alla dispersione urbana”

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Il professor Lorenzo Spagnoli
Il professor Lorenzo Spagnoli

Il professor Lorenzo Spagnoli, architetto urbanista di fama (docente al Politecnico di Milano, autore di una tra le più autorevoli storie della disciplina), è impegnato da anni nel contrasto a uno sviluppo che ha provocato un fenomeno di “dispersione urbana”, dispersione urbana che “contrasta con un’idea di città caratterizzata da continuità delle costruzioni e, soprattutto, dalla compresenza e dalla compenetrazione di più attività (abitazioni, commercio, uffici, locali di intrattenimento, ecc.) che contribuivano a rendere animato e vissuto lo spazio delle strade e delle piazze cittadine”. Discorso, insieme a quello del dissennato consumo di suolo, che andrebbe allargato a quell’insieme di comuni confinanti alla città che Spagnoli definisce la “grande Piacenza”.
Professor Spagnoli, che cosa ne pensa dei cambiamenti che si sono verificati a Piacenza e nei comuni limitrofi a livello di politica urbanistica?
In un intervento pubblicato su questa rivista qualche tempo fa, ho rilevato una serie di problemi riguardanti lo sviluppo della città negli ultimi decenni, sostenendo che a Piacenza, a mio avviso, sono mancate una strategia d’insieme, e l’adozione di politiche all’altezza di una serie di nuovi problemi. Credo che sarebbe ingeneroso non riconoscere l’impegno che in molti casi a livello amministrativo è stato (e viene) profuso su temi specifici – da quello delle aree militari alla mobilità – ma ripensando a quanto è avvenuto è difficile sfuggire all’impressione che hanno preso il sopravvento logiche settoriali che non si è riusciti a ricomporre.
Quando hanno iniziato a manifestarsi, a suo avviso, queste carenze?
La mancanza di una strategia di ampio respiro, a mio avviso, è risultata molto evidente verso la fine degli anni Novanta, quando a Piacenza era da tempo prevista la realizzazione di un sistema di tangenziali che avrebbe comportato, il problema della cosiddetta “dispersione urbana”.  Come in altre realtà era già avvenuto, infatti, la viabilità a scorrimento veloce esterna ha costituito il riferimento per una serie di edifici o di complessi monofunzionali (qui un centro commerciale, più in là un contenitore per l’intrattenimento, uffici, attrezzature logistiche, persino residenze ecc.) sparsi all’interno di grandi vuoti, spesso popolati da veicoli in movimento o parcheggiati. In questo modo, nelle zone esterne, ma anche nelle aree centrali alle quali questo tipo di sviluppo sottraeva funzioni esponendole a fenomeni di degrado,  si profilava non solo una dispersione degli insediamenti, ma anche una frammentazione sociale, vale a dire una realtà fortemente diversificata sul piano del reddito, culturale ed etnico che avrebbe dovuto essere contrastata da opportune politiche pubbliche, anche di tipo urbanistico. Ricordo che rendendomi conto di questa situazione incombente, in qualità di responsabile della commissione urbanistica di un movimento che appoggiava il sindaco Vaciago cercai di oppormi, senza risultati,  all’assegnazione  dell’incarico per il nuovo piano regolatore agli architetti Campos Venuti e Oliva, che ritenevo esponenti di un’urbanistica “quantitativa” che aveva avuto in passato grandi meriti ma che non mi sembrava attrezzata per affrontare i problemi che erano all’orizzonte.
Queste tendenze, come lei ha testé osservato, non riguardano solo Piacenza. Cosa si sarebbe dovuto fare per contrastarle?
In assenza di una riflessione, da parte dell’amministrazione pubblica, sul tema, veramente centrale, dello spazio pubblico come supporto della forma e della vita della città era inevitabile che prendesse corpo un paesaggio urbano frammentato, che si estende oggi a sud lungo un arco che si conclude con un polo logistico che rappresenta quasi un corpo estraneo rispetto alla città. Questo si sarebbe potuto evitare se vi fosse stata una conoscenza adeguata delle esperienze (“buone pratiche”)  alternative a questo modello di sviluppo. Queste sono numerose in Italia e all’estero, e riguardano una città meno dipendente  dall’automobile nella quale sia possibile realizzare una  struttura insediativa più compatta e favorevole allo sviluppo del trasporto pubblico, una compresenza di più attività (abitazioni, commercio, attrezzature per il tempo libero ecc.) in modo da creare, attraverso lo spazio pubblico, un ambiente adatto anche a cittadini con esigenze diverse (dai bambini agli anziani) e con un diverso profilo sociale, e un migliore rapporto fra posti di lavoro e abitazioni.
Per fare un esempio concreto, in molti casi si sarebbe potuto realizzare un ambiente più vivibile per quanto riguarda l’edilizia abitativa, che in un caso come quello delle quattro torri realizzate lungo la tangenziale nei pressi del centro commerciale Galassia presenta uno spazio di relazione circostante praticamente inesistente.  Vorrei aggiungere che la tendenza all’isolamento che contrassegna la “città dispersa” caratterizza anche alcuni interventi residenziali esterni alla cerchia delle mura ma abbastanza vicini al centro, e con una buona dotazione di verde, come il quartiere che sorge sull’area dell’ex-cementificio Unicem; isolato dal contesto, anche simbolicamente, attraverso sculture a forma di porta, questo intervento si è dimostrato incapace di accogliere attività non residenziali in grado di creare uno spazio pubblico vitale e realmente utilizzato anche dai non residenti. L’isolamento delle residenze, nei due casi citati, ha provocato fra gli abitanti un disagio che si è tradotto in forme di protesta. Tutto questo era ampiamente prevedibile, ma poiché la cultura amministrativa stentava a prendere atto di questi problemi, ricordo che, nel quadro dell’attività del Laboratorio di Urban Design del quale ero allora responsabile al Politecnico, progettai, con alcuni collaboratori, un progetto dimostrativo per l’area ex Unicem, sostenendo che questa era l’occasione per aprire alla città, attraverso uno spazio pubblico polifunzionale in grado di tenere insieme una realtà spaziale, ma anche sociale, un brano di territorio in precedenza chiuso all’interno di un recinto industriale.

San Nicolò, il parco lineare che avrebbe dovuto essere realizzato lungo la via Lampugnana, su un'area in parte oggi wdificata e in parte previsaa come residenziale dal Piano Strutturale Comunale adottato
San Nicolò, il parco lineare che avrebbe dovuto essere realizzato lungo la via Lampugnana, su un’area in parte oggi edificata e in parte prevista come residenziale dal Piano Strutturale Comunale adottato

Che cosa pensa di ciò che sta avvenendo nei comuni intorno a Piacenza e sulle misure urbanistiche che le amministrazioni stanno prendendo?
Devo confessare che le preoccupazioni che ho espresso a proposito di Piacenza – una realtà nella quale in ogni caso esiste un dibattito abbastanza vivace sulle scelte amministrative  – sono ancora maggiori nel caso di quella che, in un articolo pubblicato molti anni fa sulla rivista “Piacentini”, chiamavo la Grande Piacenza. In questa fascia di comuni ai confini della città da uno studio di Legambiente risulta che i Piani Strutturali Comunali adottati e approvati nella provincia di Piacenza prevedono espansioni per 30 milioni di mq di superfici territoriali e  incrementi di popolazione pari a 50.000 abitanti.  Considerando invece solo i comuni confinanti con Piacenza (Caorso, Pontenure,  Podenzano, Gossolengo, Gragnano, Calendasco, Rottofreno)  sarebbero previsti 15 milioni  di mq e 12.000 nuovi residenti. In alcuni casi queste previsioni sono contenute in piani adottati intorno al 2008, quando non vi era ancora la consapevolezza degli effetti dirompenti della crisi,  ma anche i Piani Strutturali Comunali adottati di recente prevedono un cospicuo consumo di suolo. Fra questi, molto significativo è il caso del comune di Rottofreno, nel quale le previsioni demografiche non hanno alcun fondamento nell’attuale fase socio-economica di quel territorio. La stima di 6.500 nuovi abitanti nei prossimi vent’anni  (è come se, nel PSC di Piacenza, fosse stato previsto un aumento della popolazione di 50 000 abitanti!) indicati nel Quadro Conoscitivo, infatti è legata alla tesi che le tendenze che si sono verificate nel periodo intercensuale 2001-2011 si prolungheranno, in modo ancor più accentuato, anche nei venti anni seguenti. Si è ignorato il fatto che in questo periodo non si è verificata una crisi ciclica, dopo la quale “tutto ritornerà come prima”, ma che il 2008 ha rappresentato l’apertura di una nuova e diversa fase dello sviluppo socio-economico. L’incremento degli abitanti, sulla base dei dati forniti dall’ufficio anagrafe del comune, da quella data è stato in media di 136 abitanti l’anno (a fronte dei 325 previsti dal piano). Nel 2015, addirittura, gli abitanti sono cresciuti solamente di 10 unità. Non stupisce quindi che i dati forniti dalla Provincia (gennaio 2016) indichino che nei 7 comuni di cintura – Caorso, Podenzano, Gossolengo, Gragnano Calendasco, Rottofreno, Pontenure – l’alto consumo di suolo previsto (in contrasto con l’allarme lanciato dalla Regione sull’argomento) riguarda soprattutto il comune di Rottofreno, che ha una popolazione che è del 26%  di quella dei comuni di corona e prevede un aumento demografico che è del 35% di quella che questi hanno previsto nei loro piani.
Ma non è solo il dato relativo al consumo di suolo che risulta problematico, poiché in questo come in altri casi i piani evidenziano l’esistenza di una serie di problemi irrisolti, in primo luogo la debolezza del processo di partecipazione, che sarebbe importantissimo promuovere in una situazione generale di distacco dei cittadini per la politica nella quale gli interlocutori delle amministrazioni rischiano di essere quasi esclusivamente coloro che hanno interessi economici diretti, mentre il punto di vista degli abitanti emerge con molta difficoltà. E vi sono anche altri temi di notevole rilievo qualitativo riguardanti la qualità della vita degli abitanti, che dovrebbero essere considerati più attentamente, fra i quali quello dello spazio pubblico, in particolare delle aree a verde, che dovrebbe essere un elemento in grado di strutturare l’insediamento ma che, in molti Piani Strutturali Comunali, è invece disperso e frammentato nel tessuto urbano o concentrato in zone marginali e scarsamente accessibile.
Ma a questo punto, quale dovrebbe essere il soggetto istituzionale in grado di istituire i necessari controlli? Lei stesso sottolinea come, in un contesto tra l’altro interessato da un forte pendolarismo, le previsioni denunciano scarsa coordinazione tra i comuni e sono con evidenza inadeguate alla dimensione del problema.
Il problema, a mio avviso, non è tanto quello dei controlli burocratici, quanto della definizione di orientamenti che, pur lasciando ai comuni tutta l’autonomia della quale necessitano, riguardino gli aspetti quantitativi e qualitativi dei singoli piani e il loro coordinamento. La situazione molto confusa che oggi si verifica, a mio avviso è in gran parte dovuta alla debolezza dell’amministrazione provinciale, alla quale sono state sottratte importanti competenze, ma che in certi casi non sembra neppure in grado di esercitare i compiti che ancora le competono. Questo è risultato evidente, per esempio, quando dietro una lettera-esposto di alcuni consiglieri comunali che denunciavano la mancata adozione contestuale, sempre a Rottofreno,  del Piano Strutturale Comunale e del Regolamento Urbanistico Edilizio, l’ufficio competente della Provincia dichiarava – giustamente – di non avere funzioni di controllo di legittimità sugli atti amministrativi dei comuni, ma si disponeva ugualmente a esaminare, come a mio avviso non avrebbe dovuto fare, una documentazione  in evidente contrasto con la legge urbanistica regionale.

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