Giancarlo Perini racconta il ciclismo
Il Tour nel cuore. La lunga marcia di un gregario-campione

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Pubblichiamo l’intervista a l’ex ciclista Giancarlo Perini, carpanetese illustre, curata da Stefano Raffo per il mensile Piacentini del gennaio 1996.

di Stefano Raffo – «Sto cercando Perini; in quella via ha il negozio». «Ah, dove sta Perini, beh allora…» Banale colloquio svoltosi a Carpaneto Piacentino. Dove stia via Fiume, con quel nome irredentista, d’acchito se lo ricordano in pochi. Si fa prima a chiedere di Perini che, adesso che ha detto addio al ciclismo agonistico, conduce un grande negozio di biciclette (è ovvio) e di abbigliamento sportivo specializzato.
Giancarlo Perini. Il profano di sport, e in particolare di ciclismo, va ad intervistarlo con un modesto bagaglio di «sensazioni» (più che di cognizioni) raccogliticcie: il naso triste di Bartali (P. Conte), qualche «W Coppi» visto per tempo scritto a biacca su un muro di paese, il Girardengo di De Gregori, la lontanissima lettura di un Incontro di Montanelli dedicato a un leggendario campione del pedale (chi? Non lo so più), il termine soprassella per dire sedere coniato da Gianni Brera ad uso ciclistico. Bene, Giancarlo Perini – dieci (10) Tour de France – una straordinaria carriera agonistica al fianco dei più grandi campioni degli ultimi lustri, artefice della vittoria italiana al mondiale di Benidorm (vinse Bugno) ha un naso diritto e importante, quasi allegro, la testa calva dell’uomo generoso, la voce che accogli come burbera, ma che il secondo dopo riconosci franca e cordiale. Negli ultimi anni non c’è stato giornale che, trattando di ciclismo, non ne abbia parlato bene.

Perini, lei ha iniziato a correre 24 anni fa. Conosce dunque molto bene l’ambiente, di cui è stato protagonista di rilievo; bene, che cosa è cambiato in questo quarto di secolo? Il luogo comune dice che sì, va bene la tecnologia, ma nel ciclismo conta sempre e solo l’uomo, i suoi polmoni, le sue gambe.
«Come tutte le cose anche il ciclismo è cambiato e io personalmente l’ho visto cambiare: anche questo sport si è evoluto e il progresso lo ha toccato penso al pari di qualsiasi altra disciplina sportiva. Non si tratta soltanto di tecnologia applicata ai mezzi, alle biciclette, ma è cambiato complessivamente l’approccio: preparazione e allenamenti. Una volta, per esempio, il preparatore atletico era una figura sconosciuta, o meglio, se lo permetteva soltanto una ristrettissima cerchia di corridori. Oggi anche l’ultima ruota del carro ne ha uno a disposizione perché è la stessa squadra che ne assicura la presenza; lo stesso dicasi per una figura importante come quella del medico. Oggi può sembrare strano, ma soltanto una manciata di anni addietro i ciclisti non erano seguiti e tenuti costantemente sotto controllo da un medico. Negli ultimi tempi, poi, l’evoluzione è stata vertiginosa e ne fanno fede le medie che continuano ad aumentare. Le faccio un altro esempio, personale: nei primi anni Ottanta arrivavo all’appuntamento con l’agonismo, con le prime gare della stagione con 2.500, massimo 3.000, chilometri di preparazione percorsi. Quest’anno, alla mia ultima esperienza agonistica, ci sono arrivato con 8.000 chilometri “sulle spalle”, ed ero tra gli ultimi: c’è gente che prepara la stagione con 10, 12 e anche 15.000 chilometri d’allenamento. Anni fa tutto questo era impensabile, così come impensabile era la programmazione meticolosa e scientifica che un atleta oggi si può dare. Si può già sapere (e quindi deciderlo) se si vuole essere al massimo ad inizio, metà o fine stagione».

Quindi addio al ciclismo leggendario e alle grandi imprese. Tutto in un certo senso programmato e previsto…
«Intendiamoci, le imprese possono ancora esserci ed effettivamente ci sono ancora. Certamente, però, non paragonabili a quelle di una volta; penso ai grandi distacchi; ai dieci minuti o addirittura alle decine di minuti inflitte agli inseguitori. Adesso le fughe si misurano in secondi o tuttalpiù in uno, due, tre minuti. Questo per le ragioni che le ho spiegato prima: dottori, dietologi, preparatori atletici erano a disposizione di pochi, se non di pochissimi».

Gregario. In genere una figura oscura, di portatore d’acqua per gli uomini di punta. Eppure a lei le soddisfazioni non sono mancate e oggi, al termine della carriera, è quel che si dice un atleta famoso. Che cosa ha avuto più di altri suoi colleghi gregari?
«Ho corso dieci Tour de France, e questo già da solo è quasi un record italiano nella storia del ciclismo. Ricordo i primi anni quando andavamo in Francia, intendo noi della Carrera o dell’Inospran, praticamente gli unici italiani presenti: magari prendevamo batoste, però a differenza di altre squadre ci andavamo… Ecco, secondo me questa è una corsa che un corridore professionista deve fare, è una di quelle gare che non si possono spiegare, ma che va vissuta, un banco di prova per ogni ciclista che si rispetti. È solo là che si impara veramente a soffrire. Forse è l’ultima gara rimasta ad incarnare quell’atmosfera leggendaria di cui abbiamo parlato prima. Quanto alla domanda sulla mia fama, direi che proprio questa mia assiduità al Tour ha forse contribuito in maniera decisiva. In ogni caso, e questa è una certezza, sono molto più conosciuto in Francia che in Italia».

Che differenza c’è tra il Tour de France e il Giro d’Italia?
«C’è un’enorme differenza, almeno secondo me. Basta solo pensare al numero di giornalisti accreditati: al Giro quest’anno ce n’erano 100, al Tour 960. È sufficiente questo aspetto a dimensionare le due gare; se uno ottiene un risultato in Francia lo vedono in tutto il mondo, lo vedono e lo sanno in Africa, in America, in Asia. Inoltre è molto più sentito, sia da parte del pubblico che da parte degli stesso corridori. Un campione non manca mai l’appuntamento del Tour».

Ciclisti italiani e Tour de France: quanto a risultati un rapporto difficile.
«Come classifica forse ha ragione, ma negli ultimi anni ci sono state delle belle imprese, penso a Chiappucci e penso a Pantani. Comunque tengo a dire che come ciclismo in Italia siamo messi bene e vantiamo degli ottimi corridori; certamente brilliamo di più nelle classiche, nelle gare di una giornata, piuttosto che in quelle a tappe».

A lei che cosa è mancato per diventare l’uomo di punta di una squadra?
«Sicuramente mi sono mancate le doti. La fortuna? Sì, ci vuole anche fortuna, però se pensiamo a un Indurain o a un Rominger capiamo subito che la fortuna ha un ruolo piccolo e che a contare sono proprio le doti naturali. Stesso discorso per i campioni del passato, per Moser, per Saronni e tanti altri. Ecco, tuttalpiù la fortuna, a me che ho vinto poco, avrebbe potuto aiutare a vincere qualcosa in più, ma a costruire un campione non è sufficiente».

Senta, nonostante l’evoluzione di cui ha parlato, il ciclismo si differenzia ancora dagli altri sport? Mi riferisco al tuttobusiness, alla commercializzazione esasperata che ad esempio ha contaminato, e in un certo senso disumanizzato, il calcio.
«Sicuramente il ciclismo mantiene ancora caratteristiche che lo assimilano a uno sport povero. Voglio dire che è lontanissimo dai livelli economici del calcio, o di altre attività ricche. Il ciclismo mantiene caratteristiche, per così dire, antiche: guadagna molto il campione di prima grandezza, ma i medi corridori non si arricchiscono. Quanto al resto debbo dire che secondo me sì, il ciclismo era ed è ancora uno sport pieno di fascino, bello ed anche umano: accade con grande frequenza, tanto per dire, che quando ci si trova staccati nei gruppetti che hanno perso terreno e c’è uno che sta male o ha dei problemi tutti quanti si cerca di aiutarlo, lo si aspetta e si cerca di portarlo all’arrivo; queste sono cose che fanno piacere, che consolidano il rapporto umano. Magari si aiuta oggi quello che domani sarà l’avversario da battere o l’avversario pericoloso per eccellenza».

Che cosa è la fatica per un ciclista?
«Non è facile spiegarlo in due parole, la fatica è tante cose, quando sei là in salita al massimo dello sforzo, allo spasimo delle tue energie ti passano per la testa tantissime cose. A volte anche cose belle che ti aiutano a continuare e a superare difficoltà che non penseresti di poter vincere. Importanti sono poi la volontà e la convinzione di potercela fare, senza queste non si riuscirebbe a sopportarla, la fatica. In ogni caso, questo posso dirlo con certezza, nessun ciclista quanto parte per una gara pensa alla fatica che lo aspetta: lo sa, ma non ci pensa per niente».

Ciclismo come epica della fatica e della sofferenza. Ciclismo anche come leggenda. Di recente è stato trasmesso un film per la tv incentrato sulla vita di Fausto Coppi. L’ha visto?
«Sì, l’ho visto e non metto in dubbio il realismo per quanto riguarda la vita privata del campione ma per il resto, per come ha rappresentato la carriera sportiva di Coppi, il film mi ha un pò deluso perché ha detto e fatto vedere ben poco».

Dallo sceneggiato emerge però tutto un mondo a parte. Per esempio la figura del talent scout cieco, nonché allenatore, Cavanna. Che impressione le ha fatto?
«Certamente una volta i personaggi come Cavanna esistevano. Erano d’altronde espressione di uno sport povero che rifletteva una società altrettanto povera: i corridori dotati e i futuri campioni si scoprivano quasi per caso o proprio grazie al fiuto di personaggi singolari e dotati come Cavanna. Oggi, è chiaro, tutto è molto diverso».
Si chiude qui l’incontro con Giancarlo Perini, gregario-campione di 34 anni. Si chiude con la rievocazione del momento più bello («Il mio 8° posto al Tour del ‘92, anche se molti penseranno a Benidorm») e del passaggio più difficile («L’incidente al Giro di Svizzera dell’86, fratture, interventi chirurgici: carriera in pericolo. Mi viene in mente con sofferenza il mio amico Marco Pantani»). In vista, con molta probabilità, la direzione sportiva della Futura 2000, una squadra nuova di zecca, ma prima di tutto la conduzione del negozio di biciclette. Tutte cose, comunque sia, che permetteranno a Perini di non smettere del tutto il vizio di pedalare: se lo incontrate in sella sulle strade della collina sappiate che sta facendo un giretto di 70/80 chilometri. Se invece l’avete incontrato l’anno scorso ricordatevi che quel giorno di chilometri ne stava macinando 200. Come minimo.

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